La follia e la violenza di una società frammentata dal perenne combattimento. È di psicopatologia del potere che si nutre la violenza collettiva.

Out of the Furnace” è un film del 2013 scritto e diretto da Scott Cooper.
Nel titolo italiano è stato aggiunto il moralistico: “Il fuoco della vendetta”. Quasi a voler gettare in una faccia esterna, o nella fornace stessa, tutti gli elementi simbolici di una storia in cui le vite di due fratelli s’intrecciano con il filo del più nobile piano del sentimento (sottolineato dalla riuscita colonna sonora curata da Dickon Hinchliffe, polistrumentista dei Tindersticks).
Dalla proiezione emerge con precisione tutta la violenza e la follia insita nella società in perenne stato di combattimento.
Rodney Jr. e Russell vivono in una piccola cittadina della Pennsylvania, attorno alla fonderia in cui lavorava l’ora anziano e malato padre e dove lavora lo stesso fratello maggiore, Russell.

Rodney Jr. rappresenta l’istinto. Desidera restare fuori dalla fonderia e si arruola nell’esercito, un lavoro che gli consente di stare a casa e prendersi cura del padre tra una missione e l’altra. Viaggia, andando dove? In guerra. Ed anche dopo l’Iraq, lasciato ormai l’esercito, sceglie i combattimenti clandestini della boxe a mani nude. Vive il dolore del trauma della guerra letteralmente sopraffatto dallo stesso istinto violento e folle della società che glielo ha inferto. In combattimento a mani nude non ha freni, colpisce il nemico fino alla morte; è ancora in guerra. Privo di paura andrà in contro alla morte spingendosi a combattere fuori città, sulle montagne dove il folle Harlan De Groat detiene il potere del territorio attraverso traffici illeciti legati ai combattimenti e alla droga. Perde se stesso.

Harlan DeGroat rappresenta la follia e la violenza della società che si istituzionalizzano con la meschinità del potere. Ché di psicopatologia del potere si nutre la violenza collettiva. Anche nelle più piccole e sempre tristi realtà.

Russell riconosce che c’è qualcosa di più importante della paura: il sentimento. La libertà di prendersi cura di ciò a cui si tiene di più. È coraggioso. Ed è il coraggio che lo conduce fuori dalla fornace, a compiere azioni che vanno aldilà del moralismo imposto dalla società.
Anche in carcere, dove sconta un periodo di reclusione, non perde se stesso. Si fa tatuare il nome Rodney sul braccio, un richiamo al riconoscimento dell’ombra: l’istinto della violenza collettiva.
Quando affronta DeGroat, l’assassino del fratello, è guidato da ciò che dentro di lui vi è di sacro e luminoso; ciò che va difeso e protetto dalla follia. Non è il fuoco della vendetta a muovere i suoi lucidi passi. È l’essere fuori dalla fornace. Un finale che elude il senso letterale della reclusione illuminando una libertà finalmente riconosciuta, non solo agita.
Seduto ad un tavolo in casa del padre ritrova le albe e i tramonti, il momento esatto in cui i cancelli della notte si aprono e si chiudono. È l’inizio di una nuova proiezione.

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