Riconoscimento esterno: non se ne ha mai abbastanza, ma se ne ha davvero bisogno?

Un cancello separa il giardino incolto di un collegio femminile dalla foresta.
Cicale e colpi di fucile emergono distintamente dal sottofondo sonoro del film The Beguiled (2017) di Sofia Coppola ambientato in Virginia al tempo della Guerra di Secessione.
È Colin Farrell ad interpretare il caporale nordista John McBurney che, ritrovato gravemente ferito nella foresta da una piccola collegiale, viene ospitato dalla direttrice. Ospitalità presentata in collegio con finalità didattiche di virtù caritatevole. Ma la carità non è che un pretesto e sin dal principio il nordista è consapevole d’esser prigioniero delle attenzioni delle sette donne presenti nel collegio: la direttrice (Nicole Kidman), l’insegnante (Kirsten Dunst) e le cinque collegiali. Nel tentativo disperato di controllare la situazione e trarne vantaggio, una volta recuperate le forze s’offre d’occuparsi del giardino.
Indugio nella permanenza e sottostante cedimento alle lusinghe che gli saranno fatali. È la Direttrice del Collegio stessa a chiarire all’uomo l’inutilità di quel lavoro quando ammette che in tempi di guerra tenere un giardino curato non le serve a nulla. Non serve ad essere sfoggiato, ad ammaliare gli invitati.

Se si possono continuare a svolgere le attività del collegio senza possedere un giardino curato, a cosa serve il prigioniero?
A non avere mai abbastanza di ciò di cui non si ha veramente bisogno.

E qui Sofia Coppola – come solo una donna disposta a scandagliare lo sfondo turpe delle sottili trame femminili può saper fare – mette in scena l’intero ciclo meccanico dell’invidia.
Preziosi gli indizi per la riflessione e l’avvio di un’analisi dell’ombra collettiva del riconoscimento esterno che occupa lo spazio vitale e rende sterili i luoghi della socialità.
Una sterilità alla quale si viene didatticamente addestrati soprattutto per il tramite della propaganda Woke.

Il caporale nordista dunque non è che l’oggetto inanimato attorno al quale ruota il gioco perverso e complice delle sette donne. Non importa il premio, importa solo di godere dello sguardo invidioso di chi appartiene alla stessa realtà condivisa. Il bisogno di ricevere un riconoscimento esterno che attesti la legittimità dell’autocompiacimento.
Perché non importa se si tratta di un solo soldato, di un pubblico ammaliato sotto un palcoscenico o della quantità di visualizzazioni social.
È solo il bisogno smodato della consacrazione del riconoscimento esterno (atroce nella sua inorganicità mortifera) a mettere in moto la macchina.

A ciclo consumato ecco che lo scarto prodotto viene avvolto nell’ipocrita sudario della carità e del politicamente corretto.
Rifiuto psichico del romanticismo della Green Generation che annaspa alla ricerca del giusto mastello Woke. E ripete l’ennesimo ciclo coattivo.

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