“Un tempo il sacrilegio contro Dio era il massimo sacrilegio, ma Dio è morto, e così sono morti anche tutti questi sacrileghi.” – Friedrich Nietzsche
Béla Tarr, “Il cavallo di Torino”. Ovvero la mortifera coazione a ripetere.

Il film prende spunto dalla storia di Nietzsche e del cavallo, che segna il momento del collasso mentale del grande filosofo tedesco.
Torino 3 gennaio 1889: Nietzsche vede un cocchiere colpire con forza il suo cavallo che non vuole avanzare. L’animale è esausto. Nonostante ciò, il vetturino continua a sferzarlo. Nietzsche, tra le lacrime, si getta al collo del cavallo picchiato dal padrone chiamandolo fratello. E piange.
Da quel momento inizia a scrivere i cosiddetti “biglietti della follia”, firmati come “Dioniso” o “il Crocifisso”.

In un film di potenza inaudita, il regista ungherese Béla Tarr ci racconta dell’insistenza patologica nel riprodurre costantemente le stesse azioni nell’attesa che qualcosa di nuovo accada. Una tendenza tipica dell’essere umano.
La pesantezza della vita, un giorno dopo l’altro, ha sepolto l’erotica, il piacere sotto una coltre di rassegnazione e noncuranza fatta di gesti ripetitivi.

Trenta riprese e un solo brano musicale per raccontare sei giorni, sei atti sferzati da un vento incessante. La speranza che svanisce è resa tollerabile solo dalla visione che cambia in base a quattro assi prospettici. Osserviamo i protagonisti come fossero un’opera d’arte, un Cristo morto di Mantegna, una balena in piazza.
Ci mostra un mondo dove l’eccellenza si è estinta.
Sigmund Freud direbbe «Ciò che iniziò con il padre si compie nella massa».

Come nella poetica della Nouvelle Vague, la vita è ricorsiva (come un algoritmo), non sempre ha un senso, ed è costellata da momenti immemorabili.
Ma il tempo è distensio animi. L’anima coincide con il tempo, misura l’affezione che gli accadimenti lasciano e che perdura anche quando sono trascorsi. Il passato il presente e il futuro non sono altro che il ricordo, l’attenzione e l’attesa.
Se nulla rimane, nulla è stato: resta solo l’istante presente della coscienza che si rende conto di essere rimasta sola, senza nulla a cui rivolgere né l’attenzione, né il ricordo e tantomeno l’attesa.

A interrompere la monotonia sarà dapprima la visita di un avventore, che darà vita ad un monologo nietzschiano sulla fine che sta per avverarsi, causata dal grado di corruzione umana. Poi, al terzo giorno, l’arrivo di una compagnia di zingari (probabilmente lo spirito dionisiaco, la libertà) che tuttavia verranno immediatamente allontanati dalla casa.
E poi il lento avveramento dell’apocalisse, provocato dalla stessa natura. Una visione metafisica della fine del mondo.Il cavallo smette di nutrirsi, il pozzo si secca, la brace finisce, la luce del sole si spegne, “Gott ist tot“: “Dio è morto”.

Tarr seduce il nostro sguardo e lo porta ad aderire alla spietata continuità del tempo, in cui sembrano ingabbiate le vite dei protagonisti, in modo esteriore-oggettivo, fino a farci intravedere le increspature e le irregolarità del movimento, e dunque del tempo che muta in un tutto legato con tutto.
Traghettati a quella morte che è il tempo fino al punto in cui essa annulla se stessa.
È questa la redenzione del tempo. L’immortalità si apre un varco attraverso le discontinuità che si nascondono sotto l’apparente continuità.
La scorgiamo negli occhi della figlia che inconsciamente la cerca nel vento che soffia oltre la finestra e mentre l’umanità sua e del padre si riduce a mera animalità in un un arco passivamente autodistruttivo. Nel vento – che c’è ma non si vede – lei scorge la possibilità di un punto di vista sovrumano, un’Annunciazione.

Un’opera minimale, un film low budget che ha girato il mondo, un film d’arte con un mercato limitato. Ma d’altronde, per Béla Tarr, anche i premi hanno un valore limitato.
Chissà se anche il cinema verrà riassorbito in pratiche artistiche che, non volendo saperne di morire, non potranno mai avere accesso all’immortalità e alla resurrezione?

La morte, trionfando, viene sconfitta.
Un’umanità, altrimenti condannata a coincidere con quell’animalità da cui tanti provano eroicamente ad affrancarsi, affonda le radici nella consapevolezza che noi e il mondo siamo accomunati da una medesima temporanea immortalità.
Si può cambiare prospettiva fino a considerare l’esistente non come subordinato a una catastrofe dalla quale non si può sfuggire, ma come un’obiezione, un “nonostante tutto”, e dunque come meritevole d’amore.

L’ultima immagine ci mostra i due protagonisti seduti immobili, illuminati da una luce inspiegabile.

Fonti:
• “Il cavallo di Torino” (2011) di Béla Tarr e Ágnes Hranitzky
• Franco Battiato, Gianluca Magi, “Lo stato intermedio”, Piano B, 2021.
• Agostino d’Ippona, “Le confessioni”, Bompiani, 2012.
• Sigmund Freud , “Al di là del Principio di Piacere”, Boringhieri, 1986.
• “Il cavallo di Torino”, Monologo: https://bit.ly/3vqqI8q

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