Dal primo carnet del viaggio in Cina di Roland Barthes, 12 aprile 1974: «Un intero aereo di europei (italiani, tedeschi, francesi) per Pechino. Che delusione! Si pensa sempre di essere gli unici a poterci andare».

Un giorno un uomo che amava la sua vita e quella degli altri comunque fosse ma non si guardava mai allo specchio, uscendo dal bagno si vide un attimo e gli bastò quell’attimo per capire tutto. Allora rientrò, accese con coraggio e calma tutte le luci e si guardò negli occhi. (Goffredo Parise, 1972)

Ai tempi delle gite scolastiche in visita ai musei dal monitor di casa, il richiamo ad elevarsi sopra la schiavitù del quotidiano si fa sempre più intenso.
Ripenso a marzo 2020, alla velocità folle degli eventi in corso che assumono le sembianze del più temuto tra i futuri possibili: la nuova normalità della società della sorveglianza.
Leggo di «donne e uomini della cultura, del lavoro, dell’arte, dello sport, della scienza» – così hanno avuto l’ardire di autodefinirsi – «dare sostegno politico e solidarietà al ministro della sanità Speranza», in un clima di pseudo-democrazia che ha contribuito a condurre il paese alla fame.

Ho un capogiro al pensiero di un essere umano che si reca al Wet Market di Wuhan a fare la spesa.
E ritrovo che è ancora la Natura, irresponsabilmente violata dagli atteggiamenti predatori, a suggerirmi un tempo differente di riflessione, ad indicarmi alternativi percorsi di trasduzione dagli appunti di viaggio dalla Cina di Roland Barthes e Julia Kristeva, di Goffredo Parise.
Il ritmo si fa più lento, procede a ritroso fino al periodo della Rivoluzione Culturale maoista. Quella rivoluzione ch’ebbe inizio nel 1966, che causò un numero imprecisato di vittime, le cui stime oscillano tra 300.000 e 7 milioni di persone, e durante la quale furono distrutti i volti delle statue dei Buddha.

Roland Barthes, saggista, linguista e semiologo francese, si recò in Cina tra l’11 aprile e il 4 maggio 1974 in compagnia di una delegazione della rivista comunista “Tel Quel” tra cui Julia Kristeva. L’invito ufficiale ai viaggiatori giunse dall’ambasciata della Repubblica Popolare Cinese. Si ritrovarono così a viaggiare all’interno di un circuito chiuso, appositamente strutturato per evitare qualsiasi contatto diretto con cittadini cinesi al di fuori di esso; strutturato per essere sommersi ad ogni tappa dagli slogan della campagna chiamata “Pilin Pikong”, critica a Lin Biao e a Confucio, in quei giorni in corso.

In questo clima ostile ad una visione stereoscopica ed allo spirito di un viaggiatore degno di questo nome, lo sguardo di Roland Barthes non guardò nulla. Trattenne dentro di sé il suo amore e la sua paura. Fotografò i dettagli: i colori pallidi, i paesaggi, i piccoli gesti della vita quotidiana, i poster, i cliché propagandistici nelle danze. Con didascalia umoristica. Trascrisse ciò che studenti e guide del circuito chiuso gli dicevano con gli occhi in cerca della sua conferma di assenso. Gli appunti sui suoi 3 taccuini di viaggio sono stati pubblicati solo nel 2015.

Probabilmente, l’idolo comunista storicamente irresistibile fu riconosciuto dall’europeo nella sua veste di persuasore dell’opinione pubblica. Riconobbe la disponibilità mentale volubile (“de la fadeur”: mitezza) di una parte del pubblico che, una volta manipolata, condiziona il resto del popolo. Si trovò al cospetto della presenza indiscutibile che mostra un’apparenza di forma e ordine.
Ma cosa scelse di riportare al pubblico dei lettori francesi della sua esperienza politica di viaggio? Pubblicò qualcosa che potesse dar luogo alla condivisione di soffi di realtà maggiori?
Un articolo su Le Monde il 24 maggio 1974, dal titolo: “Alors, la Chine?”, che non riuscì lo stesso a risparmiargli qualche critica:
«Allora ci lasciamo alle spalle la turbolenza dei simboli, ci avviciniamo a un paese molto vasto, molto antico e nuovissimo, dove il significato è discreto fino alla scarsità. Da questo momento si scopre un nuovo campo: quello della delicatezza, o meglio ancora (rischio la parola, anche se vuol dire riprenderla più tardi): la mitezza».

• Roland Barthes, “Alors, la Chine?”, Le Monde, 24 maggio 1974.

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