«Da qualche parte in me c’è un’officina in cui dei titani riforgiano il mondo» — ETTY HILLESUM (Middelburg, 15 gennaio 1914 – Auschwitz, 30 novembre 1943).
Quando il mostro gigantesco apre le sue terribili fauci per ingoiare case, città, paesaggi naturali, animali e milioni di esseri umani, non senza prima averli terrorizzati e torturati, una piccola perla si configge con fermezza nella sua gola e lì rimane e lì fa sentire la sua voce al mondo, rivelando il senso più profondo delle cose.
I Paesi Bassi sono già occupati, Hitler e il nazismo avanzano e si fanno più pressanti.
L’incontro del destino avviene in una serata con amici nel gennaio del 1941, a cui è presente Julius Spier, dotato di un talento particolare: leggendo le forme e le linee delle mani, sa cogliere i segni del carattere, le profondità dell’anima.
Jung stesso, a Zurigo, gli aveva indicato come nuova professione la psicochirologia, nella quale Spier si dimostra eccellente Maestro: viene definito «una personalità magica» per i forti influssi che sa esercitare sulle persone, per l’irresistibile magnetismo che emana.
Affascinante e carismatico, quando quella sera incontra Etty. Julius ha 54 anni, lei 27.
Iniziano le sedute a casa di lui, che abita poco lontano. Oltre ai colloqui, Julius propone incontri di lotta, a stretto contatto fisico. «Corpo e anima sono una cosa sola» – le dice. Le suggerisce anche di scrivere un diario.
Etty diventa sua paziente, sua assistente e infine sua amante.
Profondamente influenzata da quella forte, misteriosa personalità, scrive: «Ha assegnato il posto giusto alle cose che già facevano parte di me, come in un puzzle: tutti i pezzetti erano sparsi alla rinfusa e lui li ha ricomposti in un insieme ricco di significato».
Ai quaderni consegna il racconto della sua vita. Attraversa e descrive magistralmente ogni fase di quella relazione amorosa. Se all’inizio annota con crudezza l’aspetto dell’uomo, più vecchio e più esperto, poi si rende conto che con lui può nutrire finalmente la sua grande fame di crescita e di conoscenza.
Supera il bisogno di averlo tutto per lei e la gelosia per le altre donne che lo circondano; con il suo forte istinto di autonomia e il forte desiderio di trascendere i propri limiti, Etty scopre un modo diverso di amare che rispetta la libertà di ciascuno.
Riflette sulla condizione femminile storicamente incline ad appoggiarsi all’uomo e a realizzarsi nell’amore per lui. Pur godendo dei momenti trascorsi insieme, dell’affinità dei loro corpi e delle loro anime, arriva a comprendere che Julius è un tramite, non uno scopo: l’amore per un uomo non basta se non confluisce nell’amore per l’umanità e per il mondo, offrendo la libertà e la gioia di una consapevolezza più elevata.
Pagine memorabili sono dedicate a quello che lei chiama «il sentimento della vita» e al dialogo ininterrotto con Dio, a cui Etty si rivolge come alla parte più profonda di se stessa.
Quando, a fronte di nuove e crudeli limitazioni, gli altri la rimproverano perché non tenta di sfuggire dalle “grinfie”dei nazisti, risponde che non si sente nelle grinfie di nessuno, anzi si sente tra le braccia di Dio e sa con certezza che anche se “dovessero farla a pezzi” si sentirà sempre così. Nelle sue preghiere arriva ad essere protettiva e materna: «Se tu non puoi aiutare noi, siamo noi ad aiutare te, a difendere fino all’ultimo la tua casa in noi», «in questo modo aiutiamo noi stessi». «E forse possiamo anche contribuire a disseppellirti dai cuori devastati di altri uomini».
Hitler e l’antisemitismo stringono il cerchio attorno agli Ebrei: divieti, violenze, ghetti, stelle gialle, deportazioni, campi di lavoro, campi di sterminio.
Etty comprende con lucida chiarezza che i tedeschi vogliono il loro annientamento, ma non sceglie la via dell’odio, vuole essere parte di quella tragica sorte “destino di massa”. Si iscrive al Consiglio Ebraico per ottenere alcuni privilegi e alcune libertà di movimento. Parte quindi volontaria, come assistente sociale, per Westerbork, campo di lavoro e di smistamento.
Una brughiera con al centro dei lupini gialli, recintata da filo spinato. Ogni settimana, implacabile, fa la sua comparsa un treno merci che strapperà i prigionieri dal campo, stipandoli fino quasi a soffocarli, per trasportarli ad Auschwitz, un al di là circondato dal più fitto mistero, da cui nessuno fa ritorno e di nessuno si conosce la sorte.
Etty fa la spola tra il campo e Amsterdam, recapitando comunicazioni, viveri, medicinali e altre necessità per i prigionieri.
Julius, «ostetrico della sua anima», il giorno prima di essere deportato a Westerbork, dopo una breve malattia, muore.
Messa a dura prova, Etty è costretta da malesseri fisici a passare periodi a casa e all’ospedale. Con la consueta lucidità scrive all’amico Osias: «Lo spirito è più che mai vivace e creativo e intenso, il corpo non offre ancora una struttura abbastanza forte da poterlo sorreggere».Gli amici le propongono più volte di fuggire, offrendole aiuto, ma Etty rifiuta, recupera le forze, si stabilisce nel campo dove con grande amore e determinazione dedica tutta se stessa, senza risparmiarsi.
A Westerbork il ritmo si fa più serrato, arrivano ondate di prigionieri che si ammassano nelle cuccette, nel freddo delle baracche, nel fango e nelle tempeste di sabbia, nelle privazioni di cibo, in condizioni igieniche che provocano malattie, senza nessun riguardo per neonati, bambini, invalidi, donne incinte, anziani e con il terrore per tutti di salire su quel treno che ogni lunedì, come un mostro divoratore, viene a prelevarli per un oscuro ignoto. Quando giungono anche i genitori e il fratello Mischa, Etty li sostenta e li assiste, sacrificando ogni attimo, ogni particella di energia, mentre continua ad essere riferimento costante anche per gli altri.
Julius che si libra in quel cielo di brughiera è per Etty nutrimento quotidiano.
La sua attenzione ora è concentrata su quegli orribili eventi, di cui non perde una virgola, osserva, registra tutto. «Sono nell’inferno», scrive.
Ma la sua estasi interiore non si spegne, non viene mai a meno, è la sorgente d’amore invincibile da cui trae forza e, con suo stesso stupore, un’irrefrenabile gioia. «Lei ha sempre un’aria così raggiante», le dicono. «Fino all’ultimo una personalità luminosa», ricordano i sopravvissuti del campo.
Prima di salire con la sua famiglia sul treno che la porterà ad Auschwitz, saluta tutti allegramente e dal suo vagone lancia una cartolina postale per gli amici. È il 7 settembre 1943.
Etty si immaginava un futuro da scrittrice, voleva descrivere tutto ciò che aveva sperimentato e compreso. Non sapeva che stava già vivendo e scrivendo un capolavoro a cui avrebbero attinto i posteri, con il privilegio di assistere al disvelarsi di un’anima che si trasfigura nella luce proprio mentre si trova negli abissi dell’orrore, insiti nella natura umana, e di trarne insegnamento.
Fonti:
• Etty Hillesum, “Diario. 1941-1942”, Adelphi, 2012.
• Etty Hillesum, “Lettere, 1941-1943”, Adelphi, 2013.
• “Il convoglio” (2009) regia di André Bossuroy.
• “Bringing Etty Hillesum to Life” (2020), documentario.