«La storia dell’impossibile ritorno alla fede di un gruppo di potere, che dei segni della fede fa addirittura il suo vessillo elettorale; la storia di un corso di esercizi spirituali che è destinato a tramutarsi in ecatombe, poiché le forze negative, i fantasmi oscuri che esalano dai suoi partecipanti non possono che abbattersi contro essi stessi». — ELIO PETRI
Todo Modo – il film nato dall’omonimo libro di Leonardo Sciascia, scrittore nemico della retorica – può definirsi un’iperbole grottesca, un j’accuse dal sapore sadiano sulla politica degli anni Settanta.
E non solo.
Il titolo risuona come uno spurio richiamo eroico – “Todo Modo”, tradotto “ad ogni costo” – e s’ispira agli esercizi spirituali di Ignazio di Loyola (1491 – 1556), fondatore della Compagnia di Gesù (Gesuiti). Ignazio di Loyola, dal passato militare, caratterizza l’ordine come una sorta di gerarchia di ufficiali retta da un generale con poteri illimitati. Già questo è sufficiente per comprendere l’attualità della pellicola di Elio Petri, sequestrata dopo venti giorni dalle proiezioni e poi silenziata per una quarantina d’anni. Ancora oggi si ricerca la pellicola originale del film.
Sirene di ambulanze e altoparlanti spiegati irrompono nella prima scena. Intimano la vaccinazione obbligatoria per la misteriosa epidemia che miete vittime. Non tante, ma sufficienti come metafora della crisi della civiltà italiana risucchiata dal vortice della strategia della tensione.
Qualcosa di familiare genera un istantaneo sussulto nello spettatore.
Numerosi capi politici, banchieri e dirigenti d’azienda si adunano in un albergo, che è anche eremo e bunker: il Zafer (Vittoria), claustrale architettura brutalista. L’incontro è preludio di un cambio ai vertici. Come in una catabasi dantesca, l’edificio sprofonda per metà nelle viscere della terra, così come gli ospiti affondano nell’ipocrisia di un pentimento che alimenta la dipendenza spirituale. Nascosti agli occhi del mondo, come in una catacomba, lasciano emergere gli squallidi e grotteschi risvolti etici, erotici e psicologici che non risultano nuovi ai nostri offesi occhi: le stesse nefandezze brillano, twittano, selfano, postano, sgorgano da quella cloaca a cielo aperto che sono oggi i social.
Il film si avvale di un cast stellare. Su tutti si erge il luciferino Don Gaetano (Marcello Mastroianni qui è un vero drago), carismatico e colto gesuita nel quale verità e menzogna si tramescolano.
Apparentemente estraneo ed esterno, mostra gli atteggiamenti tipici di chi è abituato a comandare senza curarsi di regole o di vincoli, tenendo saldamente le redini della annichilente disciplina interna, fatta di cerimonie, gli exercitia spiritualia appunto. Le sue conversazioni colte e ricche di citazioni nascondono allusioni e minacce in una pretesa di superiorità.
Lo affianca un bravissimo e untuoso Gian Maria Volonté nei panni di M. (e qui ciascuno può cogliere da sé i rinvii allusivi), soporifero oratore, presidente assetato di potere, dalla dubbia sessualità, con un mai risolto complesso materno e una spiritualità frustrata contorta all’opportunismo dei compromessi.
Fanno loro da cornice un’orda di cooptati, composta da lacchè intenti alla sghemba pratica del pentimento e dell’espulsione del peccato. Chi per dovere, chi per predisposizione. Perché come dice don Gaetano «se si pratica, qualcosa succede sempre».
I meschini trascorrono il loro tempo ad accusarsi a vicenda cercando di non perdere la faccia, o peggio, il posto.
Il film illumina il mondo dietro le pareti mediatiche; svela un modo di fare politica che non è servizio allo Stato, ma Stato al servizio di pochi: la politica dei sermoni, gli slogan, la Verosimiglianza, ovvero la X tattica di manipolazione oscura per offrire all’opinione pubblica un’immagine dei fatti che ha solo una remota relazione con la realtà.
Una sotterranea eminenza grigia. Pochissime ombre decidono le sorti del Paese. Forse al di là della cornetta la voce è quella di un grande fratello transnazionale.
Oggi, rispetto agli anni Settanta, cambia la forma ma la sostanza è la stessa.
Bene! È a questo punto che si consumano una serie di delitti. E nel clima di degenerata depravazione, per lo spettatore è quasi un sollievo.
I cadaveri eccellenti verranno ritrovati in fantasiose e quanto mai (in)opportune pose.Gli omicidi sembrano immotivati e il mandante non verrà mai scoperto.
Come in 10 piccoli indiani di Agatha Christie o La lettera rubata di Edgar Allan Poe la verità è ovvia, ben nascosta, proprio perché sotto gli occhi – e sugli schermi, si direbbe oggi – di tutti.
Gela il sangue, e svela ciò che nessuno è disposto a credere, la conversazione – in cui don Gaetano paragona la Chiesa alla zattera di Medusa – che il regista volle mantenere solo sulla carta.
Quanti se ne sono salvati?
Forse troppi.
E cosa hanno fatto per salvarsi?
A don Gaetano non interessa. Ogni mezzo è lecito per cercare la volontà divina, la vittoria appunto.
Una vittoria, todo modo, che tutto giustifica.
Se il nemico è il male, allora qualsiasi mezzo usato per contrastarlo è ipso facto buono, ci ricorda James Hillman nel libro Un terribile amore per la guerra.
M.: «Preferisco perire subito nel naufragio».
Don Gaetano: «Ma no… lei sta nuotando per raggiungere la zattera, perché il naufragio è già stato. Non se n’è accorto?»
L’anatema sorge spontaneo:
Piangete, siete morti senza saperlo.
Fonti:
Leonardo Sciascia, Todo modo, Einaudi, 1974 (Adelphi, 1995).
“Todo Modo” (1976) di Elio Petri.
Gianluca Magi, Goebbels. 11 Tattiche di manipolazione oscura, Piano B, 2021.
James Hillman, Un terribile amore per la guerra, Adelphi, 2004.